Minime cognizioni di scienza sacra rendono chiaro se non il fine quanto meno la natura massonica del romanzo: la numerologia insita nella data di nascita del protagonista; il significato del nome “Ananda Sunya”; l’anagramma di “Pier Paolo Di Mino”.
La vetrina della libreria davanti alla quale si ferma Joseph Idel chiude l’intera trama del romanzo in una sola immagine: un libro, del resto, è sempre composto da tutti i libri che lo hanno preceduto.
Sono stato educato come cristiano, ma il contesto culturale in cui sono cresciuto è buddista, e, dunque, nell’approccio con questo libro mi sono sempre chiesto se non mi mancasse quella naturale visione mediterranea, quello spirito cattolico necessario per giungere a una piena comprensione dell’ontologia sottesa nel romanzo.
Un indizio ci deve indurre a pensare che non è sbagliata l’affermazione secondo la quale Hans Doré somiglia a un libro: a un certo punto Joseph Idel si perde nel centro di Berlino e, causa il semplice meccanismo per il quale la necessità si realizza per mezzo del caso, si ritrova davanti alla vetrina di una libreria: “cercò di leggere i titoli sui dorsi, ma non ci capì molto”.
A quanto ne so stamparono una copia sbagliata dello «Splendore», una sola copia diversa dalle altre.
Joseph Idel pensa a Hans, e si dice: “un giorno potrò dire di averne fatto un vero uomo, un uomo buono, un animo superiore, un grandissimo socialista che, se io non sono riuscito minimamente a fermare il male che sta montando attorno e sopra di noi, e che ci sommergerà e annienterà, lui, invece, ecco, lui riuscirà a fare quello che si deve fare”.
Mescolando personaggi storici a personaggi inventati. Passato e presente.
Se osservo bene Joseph Idel, il figlio di Clea, trovo che quest’uomo è rimasto schiacciato per troppo tempo fra due forze opposte: la concretezza e l’astrazione. Per lui la salvezza è senza dubbio il socialismo. Il suo socialismo pare a volte un fatto eminentemente concreto: fare del bene agli altri; costruire a beneficio di vaste moltitudini una casa solida che, cade la pioggia, straripano i fiumi, soffiano i venti, ma nulla l’abbatte.
Nessuno riesce a essere più buffonesco, sgraziato e sentenziosamente di cattivo gusto dell’autore del voluminoso «Lo splendore».
Clea Idel confonde il mezzo con l'oggetto. L’errore è tanto comune quanto fatale. Del resto, se Clea avesse ben distinto fra mezzo e oggetto (se avesse giudiziosamente distinto mezzi, fine e oggetto) il suo errore sarebbe stato ugualmente comune e fatale: è impossibile, infatti, ottenere un oggetto perseguendolo come fine attraverso dei mezzi dal momento che un oggetto è sempre un oggetto ontologico, mentre mezzi e fini sono privi di ontologia.
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